Di fili (invisibili), persone e racconti sono fatte le comunità di Slow Food

slow food e la comunicaizone social

A volte ho la sensazione che i giorni si ammassino uno sull’altro, come fossero carte di un mazzo irregolare.

Corrono e si rincorrono e nel mezzo ci sono io, sempre un filo trafelata, che cerco di coglierne il senso e la direzione.

Più forte di me, ho la mente narrante, per dirla con Gotschall e si, ho bisogno di ricondurre la fluidità dei giorni a un insieme più o meno coerente di storie.

Le storie le fanno le persone.

Le persone fanno le reti.

Le reti fanno i territori.

Con questi spiccioli di pensieri in tasca, sono andata al primo incontro di formazione e comunicazione 2.0 organizzato da Slow Food Toscana a Firenze.

Un’occasione, principalmente, per guardarsi negli occhi e cercare di cogliere esigenze e aspettative, dubbi e timori.

Perché di timori questo tipo di comunicazione veloce in digitale, ne solleva parecchi ed è lì che cerco di intervenire.

Insomma, il primo #comunicazionelab di Slow Food, mi ha confermato l’idea che per fare partire i progetti e per accendere le idee, ci si debba vedere, annusare, percepire.

Restiamo animali territoriali, soffriamo confinati dietro a un avatar, c’è bisogno di respirarsi almeno un po’, nonostante io sia convinta che non ci sia grossa distinzione tra la dimensione online e l’offline e sia sicura che  l’incipiente arrivo dell'”internet delle cose” finirà con il dimostrare in modo ancora più evidente che la rete è una commodity, esattamente come l’acqua e la luce. Internet non sarà neanche più un tema, come non lo sono da tempo il sale, lo zucchero e il caffè: esisterà nei nostri giorni, ne sarà parte integrante, punto.

Ma continueremo ad abbeverarci alle storie, ad aver bisogno di dare un senso al nostro vivere unendo i puntini e a rintracciare nelle persone una mescolanza mai uguale di racconti.

La complessità dell’umano continuerà a  sfuggirci sempre un po’ di mano, tenderà ancora  a esondare e a tracimare nell’imprevedibile (evviva!) per cui niente potrà sostituirsi al piacere di una stretta di mano, di quattro occhi che si incrociano anche solo per il tempo di un sorriso.

Per questo Slow Food Toscana ha inteso organizzare un primo importante incontro di formazione, offrendo a tutti la possibilità di un incontro, di un sorriso, di una domanda posta a viso aperto, senza timore.

Ad attendermi, ho trovato una miriade di racconti e di esperienze che fanno parte dell’elemento umano, che è fatto anche di odori, di impercettibili movimenti di palpebra, di sorrisi che divampano improvvisi semplicemente guardandosi.

Dietro quei volti attenti e motivati, ho intuito un caleidoscopio di storie.

Orti in condotta, vigne, mercati della terra, iniziative in cantina, racconti di come si essicca il pesce stendendolo, come i panni, in casa (senza contare la sorprendente  variante del cacciucco che fanno al Monte Argentario: manco fossimo distanti anni luce, eppure l’Italia è anche questo, un incredibile contenitore di (bio)diversità).

Un universo di saperi e di esperienze che ogni volta mi lascia a bocca aperta e che mi spiego anche con Baumann. Il sociologo polacco  sostiene infatti  che il  fascino delle Comunità aumenta proprio in una società liquida come la nostra, in forma paradossale. La “società fluido-moderna spinge senza sosta verso l’individualizzazione di tutti i legami sociali, mentre la proposta comunitarista spinge a creare una nuova solidarietà tra gli individui della comunità che sappia controbilanciare la crescente insicurezza del mondo fluido moderno“. Da questo punto di vista mi sembra evidente che riuscire a raccontare le comunità, tenendole unite da un insieme coerente e vario di storie, assume un valore simbolico assai forte e per farlo, inutile dirlo, occorre ascoltare.

Si, occorrono ascolto e rispetto per l’impegno e la fatica, per la volontà e l’attenzione che queste persone mettono nel loro fare, affinché non si perda memoria degli antichi saperi e ci siano ancora focolai di attenzione e sensibilità  su grandi temi che riguardano noi tutti e da vicino.

Intuisco che la comunicazione ancora una volta dovrebbe essere capace di mettersi a servizio di queste realtà, abbandonandosi alla sua unica vera essenza: quella di essere un filo che cuce e tiene insieme i pezzi di un racconto, adattandosi al tessuto sociale che incontra.

Se il tessuto è delicato occorrerà un filo sottile, mentre per il tessuto resistente dovremo procurarci un filo robusto.

Anche per questo disegno da alcuni giorni, senza sosta.

Lo faccio perché sto cercando nuovi linguaggi, perché ho capito che le parole non mi bastano, proprio perché la comunicazione a parole non è sufficiente, non coglie l’insieme, non ha la capacità di sintesi che può avere uno sguardo buttato in una stanza dove siedono altre persone e si dipanano storie come se le persone fossero gomitoli narranti. Il fatto è che sono mesi che lo cerco.

Cerco un modo di comunicare che sappia mettersi a servizio delle realtà che racconta, senza mettersi in competizione e diventare esso stesso protagonista della storia.

Rifuggo dagli articoli che ti promettono 6 consigli pratici per diventare Super Eroe o dai bollettini che mi vendono la miglior strategia possibile per diventare Social qualcosa in 5 minuti. Troppo spesso leggo di una comunicazione votata al sensazionalismo e soprattutto al “fai prima se fai come me”.

Io non la voglio la scorciatoia, perché mi godo il percorso e le sue anse. Mi fermo ad ascoltare storie, ad immaginare bambini e nonni che zappano, vignaioli e produttori di latte.

Mi fermo perché la vita è il viaggio e non la meta e ho capito che raccontarlo è un modo per farmi sentire parte del mondo. Un mondo che vorrei lento, buono, pulito e giusto: anche per questo sono contenta di camminare con Slow Food.

Storie slow di cibo consapevole

il cibo e slowfood raccontano amore

Se ti cade un coltello, significa che un uomo sta per farti visita. Se ti cade una forchetta significa che sta arrivando una donna Detto popolare

Oggi leggevo una analisi di Riccardo Rociola nella quale si dice che il food  è ancora l’ultimo anello di una catena che parte da settori più facilmente pensabili al digitale (moda, gaming, editoria per fare un esempio).

Questo ritardo culturale racconta una difficoltà ad avvicinare il mondo del cibo (da sempre espressione di una cultura locale se non addirittura casalinga) all’acquisto online e al digitale in genere.

L’articolo parla  di start-up, di marketplaces  di vendita diretta che mettono in contatto consumatore e fornitore accorciando la filiera di produzione e ho la sensazione che il ritardo culturale di cui scrive, si annidi  nel profondo, perché da sempre la cucina ha abitato gli ambienti intimi e privati della casa e si è alimentata del passaparola e del contatto diretto con il produttore/rivenditore/ristoratore.

La memoria di questo rapporto intimo e personale con gli “affari di cibo”, rende le persone mediamente  più diffidenti nei confronti del digitale che viene spesso vissuto come un intruso, un inutile di più. Il punto è che questo contatto diretto con il mondo del cibo, oggi  si fa più labile perché la struttura sociale è profondamente cambiata e questo cambiamento ha eroso le basi stesse del sistema.

Pensiamo alle casalinghe: sono per lo più scomparsi gli angeli del focolare che si dedicavano anima e corpo all’accudimento della famiglia e alla gestione dell’economia domestica da tutti i punti di vista.

Oggi le donne lavorano e non dedicano più quella cura e quell’attenzione che un tempo si riconosceva al cibo, mentre rimane vivo (e crescente) l’interesse per una alimentazione sana e consapevole. Fare la spesa oggi non è più un andare a trovare il lattaio sotto casa, il panettiere all’angolo o il verduraio del Mercato: le distanze fisiche si sono enormemente ampliate nei nostri centri  urbani ed è diventato pressoché impossibile conoscersi e “sapersi” come un tempo.

In uno scenario così profondamente cambiato, ecco che si fa largo una nuova necessità: quella di mettere in contatto realtà che un tempo si conoscevano personalmente  e che oggi rischiano di scomparire nel mare magno dei Super Store che inneggiano a una globalizzazione dei consumi alimentari che spesso oltre che essere dannosa per la nostra salute, lo è anche per quel senso di identità culturale di cui il cibo si fa ambasciatore.

Si, perché il cibo è cultura, è tradizione, è un groviglio di storie e leggende (io ancora non ho capito ad esempio se aggiungere un tappo di sughero all’acqua bollente renda il polpo più tenero ma lo faccio perché mi affascina l’idea che leggenda e realtà si mescolino spesso in dosi uguali per la buona riuscita di un piatto).

Dare voce a queste storie, riuscire a raccontare le produzioni locali, i presidi, le comunità del cibo che si impegnano non senza sacrificio a portare avanti le tradizioni dei nostri territori, diventa quindi anche un’esigenza culturale che non risponde alle logiche di mercato ma a quelle del nostro vivere consapevole.

Anche per questo motivo Slow Food Toscana sta cercando di promuovere la cultura digitale tra le sue condotte e proporrà una serie di appuntamenti rivolti ai responsabili comunicazione di ogni singola realtà territoriale. Si, perché lavorare bene non basta e rischia di essere frustrante se non viene adeguatamente raccontato.

Parafrasando quelli ben più bravi di me, la comunicazione serve a fare arrivare le persone in casa, la qualità dei tuoi servizi a fare sì che queste abbiano voglia di tornare a farti visita e di portare amici.

Con questo spirito ho accettato e con piacere l’impegno di aiutare la comunità toscane del buono, pulito e giusto a fare un percorso di consapevolezza attorno ai temi del digitale, anche perché parlando con molte persone attive sul territorio ho avuto modo di intuire la varietà e la ricchezza di storie che lo abitano.

Storie di giovani produttori, di allevatori, di famiglie che portano avanti con grande impegno mestieri che in alcuni casi sono a rischio di estinzione e che per me sono degli autentici paladini, spesso inconsapevoli, delle nostre radici storiche e culturali. La strada è lunga e come sempre credo che saranno molti i miti da sfatare.

Conosco l’aura di diffidenza che spesso accompagna  i Social e capisco le remore e le difficoltà di chi, impegnato per molte ore nel lavoro sul campo, ritenga che dedicare altro tempo a raccontarsi sia una inutile perdita di risorse di per sé scarseggianti. Il mio obiettivo? Far intuire loro che il tempo che dedichiamo a raccontare  le nostre storie è il tempo che investiamo ad amare  le nostre tradizioni e a rispettare l’impegno che quotidianamente mettiamo nel nostro lavoro.

A poco serve fare, se nessuno sa che lo stiamo facendo.

Ci vediamo il 21 Marzo alle 9.00 di mattina a Firenze 🙂

Tu prova ad avere un mondo nel Cuore

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Se c’è qualcuno che davvero sa guardare oltre, che lo fa in continuazione, senza pensarci su, sono proprio i bambini.

Credo infatti abbiano  avuto una buona idea le insegnanti di Marina di Campo a proporre questo tema per la Festa della Toscana e a giudicare dal sorprendente coinvolgimento di cui ha goduto la festa che oggi hanno organizzato nei locali delle Scuole Medie, sono state anche contagiose nel loro entusiasmo.

Un progetto ambizioso, come lo sono tutte le idee che hanno il coraggio di guardare oltre, appunto, di uscire dagli schemi e di parlare a un territorio, avendo cura di coinvolgerlo in un percorso di conoscenza (i bambini di V elementare e quelli di III Media a Febbraio andranno a Pianosa, a visitare il 41 bis e quindi entreranno in contatto con  un pezzo di storia del loro Comune) che interessa anche il tema dell’educazione alimentare, al cibo sano, buono, pulito e giusto.

Con questo spirito la Mensa scolastica (che propone quotidianamente cibi a Km zero) ha preparato, con il generoso aiuto di ottime cuoche volontarie, una buonissima ribollita con i prodotti locali, accompagnata da molte specialità preparate dalle mamme dei bambini coinvolti, il tutto condito dal nostro buon olio isolano e dal vino locale.

Una festa dei sapori e dei profumi, una festa delle famiglie e del volontariato, una festa per chiunque abbia ancora desiderio di credere che spendere del tempo per un obiettivo comune abbia senso e aggiunga valore ai nostri giorni, un’occasione per incrociare gli occhi luminosi delle maestre giustamente felici e dei bambini che orgogliosi mostravano i loro manufatti, un modo per creare momenti di scambio in un giorno di grigio novembre che questi bambini hanno reso colorato.

Ho assistito a un vero tripudio di creatività gironzolando tra i  laboratori: da quelli  sensoriali a quelli in  cui si insegnava a fare il sale aromatizzato con i limoni della valle di Pomonte e le erbe dei nostri campi. C’era anche il banchetto che offriva la frutta con cui i bambini creavano disegni (che poi mangiavano) e quello in cui sempre i bambini creavano frutta in feltro mentre alle pareti pendevano straordinari acchiappa sogni, frutto di un lavoro che i bambini hanno fatto sulla lettura de “Il piccolo principe” e poi ancora foglie autunnali che si trasformavano in fantasmini o riccetti e lanterne colorate a strapparmi sorrisi.

La giornata di oggi non è che un inizio, la festa inaugurale di un progetto che si propone di far fare ai bambini un percorso di conoscenza e crescita condivisa e che mi conferma che il mondo del volontariato è vivo e sbrilluccica, che ha voglia di dire e di fare, di contribuire in silenzio ma in modo straordinariamente operoso a ridisegnare i contorni di una società civile che troppo spesso vediamo slabbrati a livello centrale ma che le periferie, in special modo le isole, sanno ancora tenere uniti dal fino invisibile dell’Amore.

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Del diritto (lento) alla felicità

[la foto è di frengo2.0]

[la foto è di frengo2.0]

La vita è breve, buona e c’è un diritto fondamentale: il diritto  alla felicità. Che non si manifesta e non si deve confondere con una sorta di diritto naturale a diventare ricco o a soverchiare gli altri.

Parliamo di un’altra felicità. Delle soddisfazioni piccole, che però valgono molto.

Luis Sepulveda

Oggi ho vissuto molte piccole gioie, per le quali mi sento fortunata.

Ho fatto un giro nella campagna toscana che non vedevo da un po’, per esempio. E’ incredibile l’estensione di campi assolati e fieno, grano maturo e querce rigogliose che si incontrano spostandosi appena un po’ a sud di Piombino.

L’altra mia piccola gioia è essere  andata in un posto molto bello che non conoscevo, la Tenuta La Badiola a Castiglione della Pescaia, che mi ha ricordato le eccellenze che ci circondano e fanno del nostro territorio uno straordinario mosaico di bellezza.

Fa bene vederle, fa bene saperle. Si gode di una sorta di contagio di virtù, credo.

Il resto lo ha fatto il Convegno Regionale di Slow Food: un’occasione per entrare in contatto con le molte realtà toscane che si danno un gran da fare con gli Orti in Condotta, le attività formative, i Teatri di Paglia.  Questa storia, apparentemente marginale all’interno di un Convegno, mi ha regalato un’ispirazione nuova, l’idea che allora si, è vero che la bellezza contagia, risuona, unisce, ispira, mette in moto. La rete dei Teatri di Paglia è nata un po’ per caso (che poi, diciamocelo, mica esiste il caso) per trovare sinergie comuni, condividere esperienze, scambiare consigli strutturali e artistici. Sempre senza pretese “professionali” e con la spontaneità e la “lentezza” con cui tutto questo è nato, ma anche con la volontà di tutelare l’essenza di una straordinaria esperienza nata dal basso.

Da qui, da questa serie di esperienze riportate al Congresso, è nata in me l’idea di sostenere un racconto lento delle eccellenze, dei territori, delle tradizioni e delle culture patrimonio di un’umanità sempre più frammentata e isolata, sconquassata da cambiamenti repentini che lasciano spesso  un senso di impertinenza e di vuoto e di farlo piano, lasciando tempo alle storie di dipanarsi e di scorrere nei racconti.

Storie di persone e di produzioni, di impegno ostinato nel mantenere vive tradizioni che il correre prosaico del tempo tenta di spazzare via. Storie di coraggio e di follia, di chi ci crede ancora e non molla la presa del sogno, interpretandolo come puo’, mantenendo vivo l’impegno associazionistico, credendo nel volontariato e nel tempo speso a ragionare insieme dei problemi.

Perché insieme si può’, perché insieme è meglio.

Radici, abbiamo bisogno di radici e per ritrovarle ci vogliono terreni di coltura (e cultura) fatti da reti di persone, che sanno mettersi in ascolto, condividere visioni, rivendicare il diritto al piacere che si lega indissolubilmente a quello della lentezza. Perché ci vuole tempo per capire cosa si muove attorno a noi, per entrare in sintonia con altre realtà (ho scoperto oggi che la Toscana pullula di Condotte motivate e appassionate, che portano avanti non senza fatica, impegni coraggiosi).

E’ grazie a questi racconti e alla lentezza che mi sono concessa per ascoltarli,  che ho capito che in realtà il cambiamento è già cominciato. Comincia ogni giorno, da noi. Comincia tutte le volte che ci battiamo per non soccombere al mito della vertiginosa velocità che oggi ci viene proposta come  sinonimo di rapida soddisfazione. L’idea è che se ci affrettiamo arriviamo prima: anche alle soddisfazioni. Ma è il diritto alla lentezza che dovremmo rivendicare, invece e per farlo dovremmo riscoprire il nostro ritmo personale, avendo il coraggio di attraversare anche i passaggi bui del cammino.

Perché capire quale possa essere il contributo di ognuno, richiede tempo e tenacia, senso di responsabilità e tolleranza, nonché l’uso della memoria  come punto di riferimento per capire il presente e immaginare il futuro. Lentamente…

La schiaccia di Pasqua: storia di donne e di antichi mestieri

La foto è del mio amico Alessandro Beneforti, che vive a San Piero e mi ha aiutata a ricostruire la storia

La foto è del mio amico Alessandro Beneforti, che vive a San Piero e mi ha aiutata a ricostruire la storia e le signore  ritratte in foto sono:  Maria Diversi, Ughetta Dini, Isa Mari  e la purtroppo scomparsa Luana Catta

 

Oggi c’è un sole magnifico.

Mentre salgo su per la strada del Perone, direzione S. Piero,  le poderose fioriture di cisto e della ginestra mi riempiono gli occhi di colore.

C’è stato un tempo in cui facevo spesso questa strada: adesso mancavo da un po’.

E’ incredibile l’Elba: giri l’angolo e ti appare un mondo nuovo.

La varietà non le fa difetto, penso, e mi avventuro tra le viuzze del paese.

Un capannello di anziani in piazza nota la mia presenza: “so’ arivati li turisti”, bisbiglieranno, lo intuisco da come mi guardano.

Sorrido beffarda e ne approfitto per scattare una foto: tanto questo si aspettano da me, no?

Mi dirigo verso il panificio: sono qui per questo.

Ho letto che qui a Pasqua si fa un pane particolare: una ciambella, o meglio un girotondo di uccellini di pane all’anice. Lo chiamano la schiaccia di Pasqua.

La notizia mi ha entusiasmata anche perché ho letto che sono solo 5 le donne del paese che mandano avanti la tradizione.

Persone, sempre loro, penso mentre mi lascio guidare dal profumo di pane e entro nel piccolo alimentari.

Mi accoglie una giovane ragazza, sorride lievemente imbarazzata: forse non si aspetta il mio interesse per questo pane e mi dice che la signora che lo fa (una delle cinque ndr) è appena uscita.

Provo ad aspettarla. Girello un po’ per il paese, mi perdo per le sue viuzze, respiro l’aria dell’attesa mentre fantastico su queste donne, creature leggendarie, depositarie uniche e ultime di un antico sapere, di un patrimonio di cultura che appartiene a tutti e che troppo spesso finisce nel dimenticatoio dei “vecchi”.

La fortuna non mi assiste e della signora e delle sue 4 amiche neanche l’ombra.

Non mi arrendo: ne voglio fare un post.

Voglio raccontare che a S. Piero esiste questa antica tradizione che resiste all’usura del tempo e del conformismo e che a Pasqua, se vi va, potete sostenere anche voi lo sforzo di queste persone acquistando una delle loro magnifiche schiacce.

Voglio dire che queste donne ci provano ancora, ostinatamente, a raccontare il loro paese, attraverso le tradizioni delle loro nonne, impastando auspici e buoni propositi primaverili,  in un pane che è senz’altro augurio di prosperità e nuova vita che cova in un nido di bellezza croccante.

 

 

 

Slow Serendipity

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Ma tu guarda le coincidenze.

Sono arrivata trafelata e poco informata all’incontro di questa mattina  “Isola d’Elba: la Terra in mezzo al Mare” nella sempre bella cornice dell’Enoteca delle Fortezze.

Non so voi, ma io quando arrivo lassù e mi si apre il golfo di Cosmopoli davanti, ho un sussulto di gioia in mezzo allo stomaco: me lo fa ogni volta.

Poi lì, su quell’erbetta, ho incrociato alcuni  volti noti che non vedevo da un bel po’, ed è stato subito come di  domenica.

Parliamoci chiaro: a volte si ha la sensazione di appartenere a una grande famiglia elettiva, che si riunisce “per argomenti” ai quattro angoli dello scoglio, così finiamo con il fare involontariamente la conta (qua c’eri, là no ma oggi si, che bello).

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Serenditpity, dicevo, perché in breve ho capito che le parole chiave e il filo rosso che collegavano l’intera manifestazione, erano: rete, racconto, identità culturale, attenzione ai valori del luogo e, udite udite visitatore responsabile e affettivo al posto del classico turista.

Seduti al tavolo dei relatori, tre rappresentanti a vario titolo di Slow Food Italia (dalla Presidente per la Toscana Raffaella Grana al referente per il progetto isola Slow Massimo Bernacchini, passando per Fabio Pracchia di Slow Food Editore), Sergio Rossi in qualità di giornalista e scrittore, Cosetta Pellegrini Vice Sindaco della città di Portoferraio e Paolo Pacini Assessore di Agricoltura, Pesca e Turismo della Provincia di Livorno.

A introdurre i relatori,  Carlo Eugeni, Fiduciario della Condotta Slow Food Isola d’Elba e Capraia. 

Gli interventi di Grana e Bernacchini, mi hanno subito fatto capire che  il progetto di Isole Slow, nasce dalla volontà di mettere in rete le terre in mezzo al mare, che a dispetto di distanze geografiche a volte importanti, mantengono vive somiglianze culturali preziose. Ci si riferisce dunque alle Identità Culturali e quindi alle persone e all’insieme delle relazioni che queste intessono tra di loro e nel territorio in cui vivono e lavorano.  Una rete, quella delle isole slow, che parte “dal basso”, e che si preoccupa di unire la qualità del cibo a una proporzionale crescita di consapevolezza circa i temi della sostenibilità ad essa connessi.

E’ chiaro che in un simile scenario, la narrazione e la capacità di raccontare i luoghi attraverso il fare (bene) delle persone coinvolte, diventano il volano di un possibile e auspicabile cambiamento. Un cambiamento che anche in questo caso è voluto e creato dal basso. Un cambiamento che introduce una nuova figura all’isola d’Elba: non più il turista balneare ma un visitatore responsabile e affettivo, che avrà a cuore la possibilità di fare differenti esperienze sull’isola, in diversi momenti dell’anno.

Sarà mica che stiamo parlando di destagionalizzazione? Non è che imparare a raccontare il territorio, anche in questo caso dal basso, potrebbe essere non solo utile ma fortemente  auspicabile? 

Mentre la mia mente vortica di pensieri “serendipitici” (con buona pace dell’Accademia della Crusca),  l’intervento di Pracchia  mi introduce nel mondo del vino.

Capisco che anche in questo settore c’è un grande ritorno alle origini e soprattutto alla genuinità del prodotto, che comporta una ricerca di sapori che negli anni ’70 e ’80 sono stati messi al bando dalla Dea omologazione che, in nome di un abbattimento di costi (e sbattimenti) ha introdotto Sua Maestà la   produzione di massa, decretando la fine delle sfumature, della complessità di profumi e delle storie che un buon bicchiere di vino genuino è in grado di raccontarci. Storie, eccoci al punto:  il DNA del vino, dato anche dalla sua bucciosità, è in grado di raccontarne in quantità e di diventare un ulteriore filone narrativo pensabile e proponibile sulle isole.

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Bingo! La mia mente narrante è in sollucchero: navigo su galeoni romani pieni di prezioso mosto, immagino orde di svedesi che  sbarcheranno all’Elba  nel prossimo autunno per partecipare a magnifiche manifestazioni ed eventi organizzati di concerto tra cittadini e amministrazioni, quando Sergio Rossi mi strattona  con il suo realismo colorito e a tratti un po’ beffardo.

Principia infatti, dicendo che è richiesto a chi venga sull’isola a portare progetti idee, stimoli e proposte, la capacità di immaginarsi quanto difficile sia vivere un contesto strano come il nostro.

Anche qui, manco a dirlo, la mia mente cantastorie, si rifugia nel concetto di empatia e cerca disperatamente di portare avanti il suo film ma Sergio è bravo a “stanarmi”, a esortarmi a trovare uno sguardo meno sognante sulle cose. Del resto, afferma il Rossi, il melting pop è roba nostra: trovatemi un’altra terra in cui sia possibile degustare contemporaneamente un piatto di pasta al pesto e degli struffoli. Dopo secoli di invasioni e scorribande, di fatto è impossibile definire con certezza cosa sia espressione di una cultura popolare elbana. La diversità elbana è simile a una Unione di Stati (nemmeno troppo federati tra di loro) e  mentre immagino una ipotetica bandiera a api e strisce, Sergio Rossi incalza ricordando che il nostro è un territorio complesso sul quale insistono svariate forme di controllo amministrativo che, ad oggi, non sono state in grado di concertarsi in una visione unica e armonica.  L’idea di recuperare essenza, varietà e mestieri, dunque è nobile, ma va calata in una realtà che fatica ad esprimerne altrettanta.

Purtroppo si fa tardi e non riesco ad ascoltare l’intervento di Cosetta Pellegrini e dell’Assessore Pacini. Dalle  righe che la mia amica Cecilia Guida mi fa  avere, intuisco il senso del discorso ma non ne scrivo volentieri, per timore di non coglierne appieno il significato.

Me ne scappo trafelata più di quanto non fossi alla partenza, con un misto di pensieri per la testa ma su tutto è la serendipity a vincere.

Le difficoltà sono oggettive ed evidenti e trovo responsabile oltre che doveroso parlarne. Di fatto l’ eterogeneità e la ricchezza culturale che esprime un territorio così variegato,   non è stata ancora sfruttata in termini propositivi. Nel tempo abbiamo sprecato risorse, energie, capacità progettuali. L’isola, ha ragione Sergio Rossi, ha dato i natali a moltissimi violini solisti di straordinario talento ma è ancora orfana di Direttori d’Orchestra.

Rifletto. E’ tutto dannatamente vero, ma io non riesco a non entusiasmarmi, a non credere che cambiare, davvero, si possa e che farlo nel piccolo, nel quotidiano, sia la vera risposta. Del resto, Claudio Abbado,  grande  Direttore d’Orchestra venuto a mancare di recente, diceva:

 Il segreto della vita è trovare sempre qualcosa di meglio, avere nuove ispirazioni, nuovi entusiasmi.

Avremo anche conosciuto molti Paganini, non discuto, ma sono sufficientemente folle da non smettere di  trovare sempre qualcosa di meglio in cui sperare: una slow serendipity, per esempio e tanto storytelling territoriale da (ben) fare in una terra in mezzo al mare.

 

Ci vado perché

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Domenica prossima, nella splendida cornice dell’Enoteca delle Fortezze (non la conoscete? dovreste venire a farci un giro: per me è bellissima!) verrà presentato Elba Taste.

Di che si tratta? Di un sito che si propone di raccontare l’Elba attraverso le sue eccellenze in campo enogastronomico attraverso i suoi prodotti tipici e non solo

Alla presentazione sono stata invitata anche io  (ovviamente non ho la minima idea di quello che dirò e senz’altro lo capirò una volta arrivata in Fortezza ma so esattamente perché ci vado).

Io ci vado perché:

Il territorio per crescere ha bisogno del contributo di tutti noi.

Non si può parlare di “turismo” se prima non si ha ben chiaro che un luogo deve essere conosciuto, goduto, amato dai residenti che sono i principali cantastorie e quindi promotori di una destinazione.

Sono stufa di sentire lamentele sterili e attacchi trasversali riguardo le molte magagne isolane: preferisco rimboccarmi le maniche e guardare (ai molti) aspetti positivi per incoraggiarne la crescita, lo sviluppo e la comunicazione.

Amo le novità e Elba taste è un progetto nuovo, nato dall’entusiasmo di un fiorentino di nascita come me, che ce la sta mettendo tutta, che gira l’isola in lungo e in largo a caccia di talenti, eccellenze e bella gente.

Penso che siamo tutti affamati di bellezza, specie nei momenti difficili e che l’Elba sia una naturale dispensatrice di virtù: aspetta solo che qualcuno la racconti.

Infine, ci vado perché penso che un mondo differente non possa essere costruito da persone indifferenti e che quindi ci sia bisogno dell’impegno di tutti noi.

Vi aspetto domenica 30 giugno alle ore 19.00 presso l’Enoteca delle Fortezze, insieme ad Antonella Giuzio Assessore alla Cultura di Portoferraio, Carlo Eugeni responsabile della Condotta Slow Food Isola d’Elba, Sergio Rossi Direttore di Elba Report e Valter Giuliani, fondatore e ideatore di Elba Taste: non mancate, siete tutti indispensabili alla buona riuscita del progetto!